lunedì 7 novembre 2011

Sintesi del documento preparato dalla delegazione italiana al decimo Incontro europeo delle persone in povertà

Questo documento riflette le discussioni avute nel corso di quest'anno dalla delegazione italiana al decimo Incontro europeo delle persone in povertà (Bruxelles, 13 e 14 maggio 2011). La delegazione e il gruppo di lavoro del CILAP EAPN Italia “Povertà e Partecipazione” hanno organizzato alcuni momenti di riflessione collettiva, coinvolgendo, oltre alla delegazione e al gruppo di lavoro, ex delegati, operatori sociali, altre persone che vivono o hanno vissuto la povertà e l'esclusione sociale. Nel complesso sono stati coinvolte in queste discussioni più di 100 persone. Osservazioni generali:

1. Nel mondo occidentale i meccanismi che regolano il mercato del lavoro sono tali che permettono di espellere facilmente coloro che non servono più, che “sono in esubero”: i lavoratori più anziani che avrebbero bisogno di essere formati, quei lavoratori a bassa qualifica il cui lavoro può essere svolto in altre parti del mondo a costo minore. La domanda che si pone è: “come e perché un mercato del lavoro che ha appena espulso un lavoratore dovrebbe reintegrarlo?”.
La verità è che un lavoratore di 45/50 anni che perde il proprio lavoro molto difficilmente ne troverà un altro; la verità è che formare persone con basse qualifiche costa molto e raramente si fa; la realtà è che i corsi di formazione molto raramente si concludono con un nuovo lavoro. Le imprese che veramente sentono una “responsabilità sociale” nei confronti della società nel suo insieme e della propria forza-lavoro sono pochissime; i governi sembrano aver dato alle imprese la mano libera per fare ciò che vogliono, cancellando o ignorando le regole esistenti e i diritti dei lavoratori. Come può il mercato del lavoro così come è organizzato oggi – meno sono le regole e meno i diritti e meglio è – dare speranza agli scoraggiati, cioè a quel milione e mezzo di italiani, perlopiù donne e giovani, che, secondo gli ultimi dati della Banca d'Italia, vorrebbero lavorare ma non cercano lavoro perché sono sicuri di non trovarlo?

2. Con Europa 2020 i capi di stato e di governo si sono impegnati ad arrivare a un tasso di partecipazione al lavoro del 75%; il governo italiano ha stabilito il suo target nazionale in un ventaglio che va dal 67 al 69%. E' ormai evidente che, almeno nel mondo occidentale, non ci sono abbastanza lavori che garantiscano un salario e una vita dignitosi. In effetti sembra ci sia una precisa corrispondenza tra la creazione di nuovi lavori e la crescita del fenomeno dei lavoratori poveri. Quali le garanzie affinché tutti questi (eventuali) lavori che si creeranno da qui al 2020 saranno lavori dignitosi che garantiscono un salario adeguato?

3. Le disuguaglianze di reddito non sono mai state così forti come ai nostri giorni. Un esempio tra molti: il signor Geronzi, dopo un anno come presidente delle Assicurazioni Generali, avrà una buonuscita di 16.65 milioni di euro! La disoccupazione aumenta, la povertà aumenta, il mercato del lavoro produce sempre più lavoratori poveri, i tagli allo stato sociale stanno devastando la vita di molti, sempre più sono gli ostacoli da superare per accedere a quel minimo di stato sociale ancora in piedi. Forse è arrivato il momento di tornare a un minimo di decenza e far passare una legislazione europea che metta un tetto a queste buonuscite e compensi che sono uno schiaffo in faccia alle tante persone che non hanno un lavoro, alle tante persone che lavorano per tutta una vita per 1000 euro al mese o che, più semplicemente, lavorano.

4. “Cercare n lavoro è un lavoro”. Come si può cercare attivamente lavoro se la maggior parte della giornata passa cercando di “sbarcare il lunario”? Come si può cercare un lavoro se la mancanze di reddito forza le persone ad accettare qualsiasi cosa sia disponibile al momento: lavori precari e malissimo pagati, lavori in nero? E' arrivato il momento per l'Unione europea di chiedere con forza a TUTTI i suoi stati membri di attivare schemi universali di reddito minimo adeguato accompagnati da politiche di inclusione attiva (da non confondersi con attivazione).

5. Anche la salute di coloro che sono costretti al precariato per troppo tempo o che lavorano in nero è precaria: all'ordine del giorno stress mentale, esaurimenti nervosi, infarti fino ad arrivare ai casi estremi – ma purtroppo non così rari – di tentativi di suicidio.

6. In Italia, nel 2010 ci sono stati 980 morti sul lavoro (costruzioni, agricoltura...), il 6,9% meno dell'anno precedente anche se, a detta degli esperti, il calo è dovuto più al fatto che sono meno le persone che lavorano che non al rispetto delle regole, che pure ci sono. Questo numero non include coloro che sono morti dopo qualche giorno da un incidente sul lavoro perché raramente i media se ne occupano. La Corte europea di giustizia ha rigettato alcune eccezioni presentate dal governo italiano in materia di sicurezza sul lavoro. Le istituzioni europee devono mantenere alta l'attenzione su questo fronte. Altri punti importanti relativi a specifici gruppi vulnerabili
1. Donne e lavoro - Il tasso di disoccupazione tra le donne italiane è uno dei più bassi d'Europa: il tasso di occupazione tra le donne senza figli tra i 25 e i 54 anni è del 63,9%contro una media europea del 75,8%. Lavoro e famiglia, in Italia, non vanno d'accordo: solo il 36,9% delle donne tra i 25 e i 64 anni di età con tre o più figli lavora. Il divario salariale tra uomini e donne è ancora molto alto, le donne in posizione di responsabilità nelle aziende o in politica sono ancora molto poche. Ma le donne , in queste ultime decadi, hanno fatto passi avanti giganteschi: studiano più a lungo dei loro colleghi uomini, hanno voti migliori. Molte sono ancora le resistenze – al di là delle parole – del lavoro femminile anche perché, senza di loro, il sistema di “welfare all'italiana” crollerebbe miseramente. Il documento “Europa 2020” per incrementare il lavoro delle donne preparato dal ministero per le Pari Opportunità parla molto di “misure per conciliare vita lavorativa e vita famigliare” come se questo problema fosse di esclusiva competenza delle donne e non investisse invece l'organizzazione complessiva di tutta la società; il Piano Nazionale di Riforma asserisce che le donne spesso sono “second earners” : ci domandiamo se questo in qualche modo possa giustificare il divario salariale o il fatto che la maggior parte dei lavori precari sono svolti dalle donne o che troppo spesso si dimentichino le loro qualifiche. La delegazione pensa che non è vero che le donne rientrino in una “categoria debole” ma che, al contrario, esse siano molto forti... è il mercato del lavoro e la cultura generale che non sono tagliate a misura dell'altra “metà del cielo” e non, come si tende a farci credere, il contrario. Si deve cambiare il mercato del lavoro e si deve cambiare la cultura del lavoro, ancora troppo orientata al “maschile” per andare verso un mercato del lavoro e una cultura che rispettino gli esseri umani, tutti e senza distinzione.
2. Giovani e lavoro - Il tasso della disoccupazione giovanile in Italia è spaventosamente alto: 30% + gli “scoraggiati” di cui si accennava prima. Molti giovani, specialmente coloro che escono dalle nostre università, lasciano il paese appena possono per andare a lavorare altrove. I giovani sono costretti a rimanere in famiglia per molti anni prima di poter anche pensare minimamente a un futuro autonomo. Il problema principale è che per i giovani non ci sono lavori che permettano loro di “immaginare un futuro”. Molti i punti sottolineaati dalla delegazione ed ai giovani che hanno partecipato alla discussione; ne riportiamo i principali: - I Centri per l'Impiego, almeno a Roma e nelle grandi città, non lavorano come dovrebbero. Le informazioni che offrono sono poche e spesso inutili. Sono pochi coloro che trovano lavoro attraverso questi Centri: nessuno dei partecipanti alla discussione. I Centri per l'Impiego non sostengono o seguono i ragazzi che ci si rivolgono. I Centri per l'Impiego dovrebbero lavorare con metodologie più vicine alle persone, offrendo un servizio personalizzato di tutoring e accompagnamento. Sfortunatamente, ci dicono i ragazzi che hanno partecipato alla discussione, “il lavoro ce l'hai solo se i tuoi genitori o i tuoi parenti conoscono personalmente il capo”. - Molti dei ragazzi che hanno partecipato non vedono “qualche hanno di precariato come un grande problema”. Infatti, “Siamo tutti molto giovani ed è bene avere il tempo per sperimentare e capire cosa vogliamo fare da grandi”. Però, “E' difficile quando hai una famiglia sulle spalle e sei così giovane” e, “Va bene per un po', ma poi arriva il momento di trovare una propria strada e diventare grandi”; infine, “Vorrei tanto andarmene via da casa ma come pago l'affitto? Come mangio? Con i 500 euro al mese che guadagno?” - Formazione e educazione son considerati una “carta vincente, un paracadute” per tutti i ragazzi coinvolti nella discussione. Però le istituzioni non aiutano coloro che vorrebbero studiare e che devono anche lavorare. “Tutto va contro le necessità degli studenti-lavoratori: gli orari, i compiti...vorrei studiare ma devo lavorare e sul lavoro non posso certo scegliere gli orari che vorrei”. I ragazzi di origine Rom che hanno partecipato alla discussione hanno tutti asserito di non aver mai subito discriminazioni a scuola: ottimo segnale del buon funzionamento del nostro sistema scolastico, almeno a Roma. - La pressione famigliare gioca un ruolo fondamentale, almeno per i ragazzi di origine Rom e spesso è un deterrente al proseguimento degli studi oltre la scuola dell'obbligo. “Ci sposiamo giovanissimi e dobbiamo cominciare a lavorare al più presto”. Ma non per tutti, infatti: “Nel campo dove vivo studiamo tutti perché i nostri genitori ci credono”. - Il lavoro nero è esperienza ricorrente e del tutto normale: segretarie, commesse, baristi o camerieri, pulizia nelle case o edilizia... “Perché, ci sono altre soluzioni?”. - Se la discriminazione non è un problema a scuola, certamente lo è quando si cerca un lavoro. La discussione serve a rafforzare quanto asserito più volte da un adulto, ex delegato di origine Rom: “Molti di noi lavorano regolarmente ma nascondono il fatto di essere Rom”.
3. Transessuali, transgender e lavoro - Sono il gruppo più discriminato in Europa: la discriminazione comincia spesso in tenerissima età, in famiglia, per proseguire poi con episodi violenti di bullismo a scuola, specialmente nelle superiori (ciò spiega tra l'altro l'altissimo tasso di abbandono scolastico). Sono discriminati sempre, ovunque: nell'accesso alla sanità e agli altri servizi sociali, quando cercano un appartamento in affitto, sul lavoro dove sono il gruppo con il più alto tasso di disoccupazione in Europa. La discriminazione è presente anche nel mondo dell'associazionismo perché: “Anche se abbiamo competenze che ci permetterebbero di dedicarci ad altri gruppi svantaggiati siamo sempre impiegate per lavorare con vittime di prostituzione o tratta”. I pregiudizi sono talmente tanti che non ci sono molte alternative alla prostituzione anche se, “Moltissime sono le transessuali che vorrebbero lasciare la strada ma trovare un lavoro è quasi impossibile”. Anche se è vero che “trovare lavoro o mantenerlo nella fase di transizione è più semplice se sei una parrucchiera, per esempio”. Trovare un lavoro è un problema enorme anche perché mancano le qualifiche, mancano corsi specifici che offrano un vero futuro. I pregiudizi sono così forti che “Viviamo in un mondo chiuso...poche sono quelle che sono pronte a combattere”. Cosa si dovrebbe fare per migliorare questa condizione? - Sarebbe importante ottenere i documenti che attestino il cambiamento di genere fin dalla prima fase della transizione, come già succede in altri stati membri come, per esempio, il Belgio, la Spagna, la Germania - Le leggi anti-discriminazione dovrebbero essere finalmente applicate fino in fondo - E' necessario lanciare una GRANDE e LUNGA campagna contro le discriminazioni di genere per aiutare le persone a liberarsi dei tanti pregiudizi perché “due manifesti per strada ogni tanto non servono a nulla” Infine, il gruppo ha sottolineato che: “In Italia manca una cultura che riconosce pari dignità e diritti a tutti” e quindi: “Manca una cultura che riconosce il diritto di tutti e tutte all'accesso alla casa, alla salute, alla libertà di espressione”.
4. Immigrati e lavoro - Le ultime statistiche affermano che in Italia vivono circa 5 milioni di immigrati e che essi sono una componente importante del segmento meno qualificato del mercato del lavoro. Gli immigrati lavorano e vivono nelle case degli italiani, lavorano nel settore alberghiero e della ristorazione, lavorano come operai non qualificati nell'industria e nelle costruzioni. Pochi coloro che sono impiegati nelle professioni “intellettuali” o come operai specializzati o come tecnici o nel settore sanitario; pochissimi quelli che hanno una propria impresa. Gli immigrati spesso lavorano in quei settori dove “il nero” la fa da padrone. Questo succede perché l'immigrato ha bisogno di trovare lavoro immediatamente e pochi possono permettersi il lusso di aspettare di trovare un lavoro regolare. Dal canto loro, i datori di lavoro possono “assumere” in nero anche immigrati con un regolare permesso di soggiorno, dipende da quanto gli organi preposti siano disponibili o no a chiudere un occhio (e anche tutti e due). Si assiste spesso al paradosso che gli immigrati che dovrebbero essere i più esclusi (senza permesso di soggiorno) sono tra coloro che trovano lavoro più facilmente perché le famiglie e i datori di lavoro sanno di poterli pagare meno e sanno che non cercheranno di far valere i propri diritti. Le maggiori difficoltà degli immigrati in Italia possono essere così riassunte: - I Centri per l'Impiego e gli altri canali ufficiali di ricerca lavoro non sono sufficientemente organizzati per accogliere questi cittadini - Sussistono pregiudizi che impediscono l'assunzione di immigranti in base alla loro origine. Pregiudizi che sembra rincorrano una moda: secondo il periodo, è “meglio non fidarsi degli albanesi, o dei marocchini, o dei rumeni....” - Corsi di formazione spesso inutili e che non rispecchiano le necessità degli immigrati - Una legge sull'immigrazione a maglie troppo strette e di difficile, se non impossibile, applicazione Integrare gli immigrati significa dar loro la possibilità di trovare un lavoro regolare; significa non ancorare in maniera troppo restrittiva il permesso di soggiorno al lavoro; significa dar loro la possibilità di pianificare il loro futuro, compresa l'eventuale riunificazione famigliare. Le risposte che le istituzioni politiche e culturali devono dare alle istanze poste dagli immigrati devono riflettere il grande contributo degli immigrati alla stabilità del sistema economico italiano. Bisogna mirare a colmare il divario tra i diritti effettivi dei lavoratori immigrati e i diritti dei lavoratori italiani, un divario ancora molto ampio malgrado il fatto che, teoricamente, le leggi garantiscano la piena parità di diritti. Siamo di fronte a un circolo vizioso in virtù del quale le originarie barriere culturali ed economiche creano ulteriori diffidenze ed incomprensioni col risultato ultimo di mantenere ed acutizzare le problematiche poste dai fenomeni migratori. Per spezzare questo circolo è necessario, innanzitutto, superare gli schemi concettuali predeterminati, educare le nuove generazioni ad una nuova cultura multietnica e in contemporanea, creare le precondizioni affinché gli ostacoli legati al mondo del lavoro, già di enorme peso per i cittadini italiani, non siano inaccessibili e insormontabili.
5. Disabili e lavoro - La legge 68 del 1999 ha aperto nuove opportunità per l'inserimento lavorativo dei disabili. La legge prevede infatti una varietà di strumenti per valutare correttamente le capacità lavorative dei disabili e, quindi, integrarle nella maniera e dei posti di lavoro più consoni. La legge prevede anche un'analisi attenta dei lavori disponibili, forme di appoggio, azioni positive e soluzioni legate al superamento dei problemi che un disabile può incontrare sul posto di lavoro. Con questa legge, per esempio, le cooperative sociali di inserimento al lavoro delle fasce svantaggiate devono, per essere riconosciute tali e godere di una serie di sgravi fiscali e contributivi, assumere un minimo di 30% di persone svantaggiate sul totale dei lavoratori assunti e le imprese private possono usufruire di una serie di benefici fiscali e di contributi per adattare il posto di lavoro affinché i disabili possano svolgere le loro funzioni (acquisto di nuove tecnologie, abbattimento delle barriere e così via). Tutto risolto, dunque? Purtroppo no e c'è ancora tanta strada da fare. Alcuni punti dolenti: - Troppo spesso le imprese sfruttano i benefici della legge senza assumerne gli oneri: molte sono infatti le false assunzioni di disabili - Alcune cooperative sociali (anche se una minoranza) purtroppo agiscono come se fossero imprese private e traggono dalla legge vantaggi anche maggiori rispetto alle compagnie private. Le tantissime cooperative sociali che credono nel proprio lavoro hanno oggi grandissime difficoltà perché le istituzioni pagano con enorme ritardo quanto dovuto (fino ad un anno) e le considerano come luoghi in cui parcheggiare quei casi particolarmente difficili ai quali non vogliono o non sanno rispondere adeguatamente. Le cooperative, inoltre, godono di pochissima fiducia da parte delle banche o delle altre agenzie finanziarie, cosa che rende ancora più difficile affrontare le grandi difficoltà economiche in cui si dibattono. Ma, dopo una disanima delle principali difficoltà, passiamo ad alcune possibili soluzioni: - Un controllo più rigido di quelle imprese o cooperative sociali che si avvalgono dei benefici della legge 68/99: questo eviterebbe spese inutile e sperpero di soldi pubblici, dando dignità a coloro che credono nel “dare e ricevere dignità attraverso il lavoro”. - Ma la soluzione principale è che le istituzioni, dal governo agli enti locali passando per le regioni, abbiano la volontà politica di non abbandonare quelle politiche sociali, la legge sull'inclusione lavorativa delle fasce deboli inclusa, che negli anni hanno dato speranza e dignità a tante persone, dimostrando che “cambiare la nostra vita è possibile”. Sfortunatamente la storia sembra andare in tutt'altra direzione.

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